LA RIFLESSIONE/”Dall’amarcord della Gioventù di Azione Cattolica a Papa Francesco”

di Pippo Pracanica*

“Il Venerdì Santo del 1954 Pio XII, su suggerimento di Luigi Gedda, costrinse Mario Rossi e tutta la presidenza Nazionale della GIAC, Gioventù Italiana di Azione Cattolica, a dare le dimissioni. A provocare tale discutibile decisione erano state le vistose incomprensioni e le pesanti prese di posizione che, nel tempo, la GIAC aveva assunto nei confronti della politica della Chiesa, dissenso manifestato anche sul modo di impartire la catechesi. Anch’io, che facevo parte della GIAC, ovviamente come ultima ruota del carro, mi dimisi non solo per solidarietà con Mario Rossi e la dirigenza romana, ma anche perché non condividevo la visione della Chiesa che avevano Pio XII e Gedda. Avevamo vent’anni o poco più, e credendoci già classe dirigente, avevamo il coraggio, o forse meglio l’incoscienza, di decidere con la nostra testa! Mario Rossi, a ventisette anni, aveva preso il posto di Carlo Carretto che era stato costretto, a sua volta, due anni prima, a dare le dimissioni. Nessuno può negare che quella vicenda ha lasciato un segno indelebile e delle conseguenze incalcolabili sull’azione dell’Azione Cattolica e, probabilmente, anche su quella dell’intero laicato cattolico italiano. Quello che si era dimesso era un gruppo dirigente, a dir poco, singolare, sia per i tempi che per la tradizione  dell’associazione. Ha scritto Francesco Piva: «Avevano visto e a volte fatto la guerra, qualcuno aveva partecipato alla Resistenza, alcuni avevano vissuto l’esperienza della prigionia. Anche per questo portavano istanze nuove. E se Carretto evolve le sue posizioni prendendo le distanze da Gedda, è anche perché aveva attorno questo gruppo dirigente, costituito da personalità forti, alcune delle quali poi avrebbero fatto strada: basti pensare a Umberto Eco, Silvio Garattini, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Emmanuele Milano, Luciano Tavazza, Dino De Poli, Wladimiro Dorigo». Quando Rossi lasciò, quasi tutti i dirigenti centrali lo seguirono, insieme a dirigenti diocesani che poi entrarono in settori chiave della società e della cultura. Le sue dimissioni furono un fatto clamoroso, anche alla luce di una dura presa di posizione dell’Osservatore Romano che rimproverava a Rossi e al suo gruppo di avere seguito «pericolose tendenze dottrinali». La stampa del tempo attribuì alle dimissioni motivazioni soprattutto politiche, visto che nel ’52 Carretto si era opposto a quella che era stata chiamata «operazione Sturzo», ossia ad un’alleanza inedita tra la Democrazia Cristiana e il Msi per le comunali di Roma. «In realtà il conflitto di Carretto, e soprattutto di Rossi, con Gedda non è legato a un episodio concreto, ma piuttosto a una progressiva contraddizione. Tra la fine della guerra e il ’54, il gruppo dirigente aveva percorso un itinerario rilevante. Se era partito dall’impostazione geddiana (lo stesso gruppo dirigente partecipò all’esperienza dei comitati civici in vista delle elezioni del ’48), gradualmente aveva superato quella visione conservatrice e allineata rispetto alle gerarchie istituzionali. E questo avveniva – oggi lo si conosce più chiaramente – grazie all’interesse per quella nouvelle théologie francese (Chenu, soprattutto), allora guardata con sospetto negli ambienti ufficiali. Probabilmente Carretto, con la sua formazione tradizionale, da solo non ce l’avrebbe fatta a staccarsi da Gedda, cui era legatissimo. Ma Carretto era il terminale di una riflessione che avveniva nel gruppo: Dorigo, Pfanner, Graziani; il loro contributo da un lato e dall’altro gli stimoli teologici di don Arturo Paoli concorrevano nel mettere in evidenza i limiti del geddismo: un atteggiamento debole verso la democrazia, l’investimento sulle strutture più che sui contenuti, l’attenzione all’azione più che alla spiritualità». Ma il nostro breviario, in quegli anni,  era, soprattutto, Umanesimo Integrale di Jacques Maritain (“L’uomo non raggiunge la sua perfezione che sopranaturalmente, egli non cresce che sulla croce. Un umanesimo è possibile, ma a condizione che esso abbia per fine Dio attraverso l’umanità del Mediatore.”), anche se non disdegnavamo di leggere Il Mondo di Pannunzio.  L’apertura teologica e culturale, iniziata con Carretto, fu proseguita in modo più incalzante da Rossi. Spiega Piva: «Fu messo in discussione soprattutto il rapporto tra Chiesa e mondo. I laici di Azione Cattolica erano stati formati, durante il fascismo, all’idea di conquista: ora si va piuttosto verso un’idea di comunione, secondo la quale i laici hanno una funzione nel mondo, legittimata all’interno di una Chiesa che non lo vede più come un nemico». Quindi, dietro la riflessione sul laicato, c’era un cammino teologico e culturale più profondo e complesso, che il Concilio Vaticano II farà riemergere. «Soprattutto Rossi coltivava un’idea del rapporto tra Chiesa e mondo molto lontana da quella di Pacelli: guardava alla secolarizzazione senza paura, la vedeva come un elemento positivo che avrebbe potuto rifondare e rigenerare il cristianesimo, liberarlo dai fronzoli. Era un’idea originale, che si collocava all’esterno di quella prevalente di “civiltà cristiana”». Nella loro elaborazione culturale i giovani dirigenti si trovarono in compagnia di sacerdoti significativi. «I due assistenti che davano la linea erano don Nebiolo e don Paoli. Ma la vera mente che sorregge il rinnovamento è Paoli, entrato in seminario da grande, laureato in filosofia, dotato di un alto spessore culturale. Rossi comunque si muove autonomamente, porta contenuti propri. Forse anche per questo tra loro si instaura un grande dialogo: diventarono amicissimi. L’azione di Arturo come assistente spirituale si concentrò nel richiamo all’interiorità necessaria per dare sostanza alle strutture e nel sostegno della autonomia laicale nelle scelte politiche nei confronti dell’invadenza clericale. Nel 1952 la “sterzata verso destra nazionalista e conservatrice” con l’ “operazione Sturzo” provocò, nell’ottobre, le dimissioni di Carlo Carretto. Anche con Mario Rossi, indicato dallo stesso don Paoli  successore di Carretto, la presidenza GIAC continuò il cammino nella stessa direzione fino a quando Pio XII (8 dicembre 1953) con un messaggio pubblico richiamò la necessità “dell’unione interna” e “dell’unità del comando” dell’Azione cattolica.  La tensione era forte. Bastò un incidente giornalistico a far precipitare gli eventi. Un breve colloquio di Arturo con un giornalista del settimanale L’Europeo, Nicola Adelfo, si tradusse in una esplosiva intervista dal titolo: “questi cattolici cercano nuovi cieli e nuove terre”. Anche se l’intervista conteneva molte approssimazioni, don Paoli vi riconosceva, comunque, la paternità di tre idee: “Esiste un contrasto di due mentalità nell’ambito della Azione cattolica. Oggi la chiesa sta portando a maturità il laicato. I giovani non vogliono essere di destra”. Il 26 gennaio fu convocato dal Card. Piazza “abbiamo deciso di mandarti come cappellano di navi”. Don Paoli, obbediente, partì ma si sentiva “sradicato”. “Quella famiglia mi aveva estromesso, con quei metodi soavemente crudeli che talvolta gli uomini di chiesa utilizzano per sospendere dalle loro funzioni le persone sgradite, senza dare spiegazioni”. Nel viaggio di ritorno da Buenos Aires a Genova incontra il religioso francese Jean Saphores della nuova Congregazione fondata da René Voillaume seguendo l’ispirazione e la regola scritta da Charles de Foucauld. Così ricominciò il suo impegno pastorale nel deserto, dove lo raggiunse Carlo Carretto.  Quando fra’ Paoli rievoca quei giorni parla di una sofferenza che l’ha fatto rinascere in modo definitivo. I ricordi di quella triste ma esaltante esperienza del ‘54 ci costringono, oggi, ad una riflessione sul laicato, il suo ruolo, le sue responsabilità, la sua importanza, ai fini del pieno svolgimento della missione della Chiesa e questo soprattutto per due motivi: il primo, la fine della Democrazia Cristiana, ha posto in termini nuovi il rapporto Chiesa-società. Infatti la rappresentanza dei cattolici non più mediata dal partito che se l’era assunta, di fatto e, possiamo anche dirlo, con l’avallo della Chiesa italiana, è ora esposta al rischio della debolezza, se non addirittura dell’insignificanza. In secondo luogo, a quasi cinquant’anni dal Vaticano II, dovrebbe risultare definitivamente acquisita l’autonomia del laicato cattolico: nel senso non della separatezza dal corpo ecclesiale, ma del riferimento a una consapevole e responsabile presa di coscienza del suo ruolo, lungo un percorso che è illuminato dalla Parola, dal magistero ecclesiastico e dai “segni dei tempi” che, comunque, il laico deve saper decifrare. Un punto certo in questa riflessione può trovarsi negli scritti di  Giuseppe Lazzati che ha parlato di cittadinanza del cristiano, che deve essere capace di illuminare il rapporto Chiesa-laicato-mondo, cosicché i credenti diventino sempre più “cittadini degni del Vangelo”. Nel 1914 Eugenio Donadoni aveva propugnato un cattolicesimo che tornasse ad umanizzarsi, uscendo dalle sacrestie e vivendo nel contesto sociale, “perché la Chiesa deve concorrere, vivendo nel mondo, a che il mondo tutto, e non soltanto quello spirituale, sia governato secondo le leggi della giustizia eterna”. Invitava quindi “i preti ad entrare nella vita e nelle battaglie del loro tempo, senza temerarietà ma anche senza paura e vedrebbero subito qual è il loro posto e che cemento sia la religione, per la concordia ed il buon ordine dello Stato”. Per poi concludere che “Il Cristianesimo è esso tutto negli Evangeli e negli Apostoli? Esso non è solo una teoria, ma anche un grande fatto storico […]. Il mio Dio ha fatto venti secoli di storia fra gli uomini”. Ad un secolo da Donadoni, Saverio Xeres e Sergio Campanini, un laico ed un sacerdote, si ribellano alla situazione stagnante in cui è venuta a trovarsi, da molti anni, la Chiesa. “È una sensazione condivisa, di que­sti tempi, nelle nostre comunità cri­stiane: un senso di oppressione, qua­si mancasse il respiro. Come per una Chiesa piuttosto in affanno, fino ad avere il “fiato corto”. Alcuni attribuiscono l’inizio di tutti i mali presenti nella Chiesa alla svolta segnata dal concilio Vaticano II, ma è una tesi non giustificata. Se ci fu un mo­mento in cui il respiro della Chiesa si fece ampio, fu proprio quello: recuperando le dimenticate profon­dità della Scrittura e della Tradizio­ne, riattivando i legami con le altre Chiese cristiane, aprendo le fine­stre verso un mondo in fermento. Si era tornati, insomma, a respirare a pieni polmoni, utilizzando le mol­teplici risorse che lo Spirito mette a disposizione del Corpo di Cristo. E ci si è rasse­gnati ad un piccolo cabotaggio, in un rassicurante andirivieni tra una sponda e l’altra. Eppure il vento soffia ancora”. Per fortuna, oggi, la regia di questo vento se l’è assunta Papa Francesco. Purtroppo dobbiamo domandarci, ancora una volta, se, a Messina, lo spirito del Vaticano II sia mai arrivato e, soprattutto, se il laicato cattolico vuole avere una voce propria. Partendo dalle più antiche esperienze alle più recenti  la risposta non può non essere che un no secco, categorico”.

* Past President Cittadinanzattiva

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